Sono anni che tra gli ascoltatori di un certo genere musicale (oggi divenuto piuttosto ampio ed etichettabile sotto la parola “rap”) scorre, passando più o meno come inascoltata, una certa lamentela riguardante il fatto che i nostri artisti preferiti non vengono mai in Italia.
Recentemente questo trend sembra aver preso una piega nuova e decisamente inaspettata con i primi concerti nel bel paese di personaggi del calibro di Eminem e dei Gorillaz ma anche il tanto acclamato arrivo della coppia d’oro dei signori Carter, Post Malone o ancora Pusha T che ha recentemente annunciato una data a Milano prevista ad ottobre 2018.
Certamente questo rinnovato interesse per il nostro paese non è dovuto né al nuovo governo salviniano né tantomeno alla noia di un popolo senza mondiali, ma è grazie ad un genere musicale ormai ampiamente diffuso in tutta la penisola e commercializzato soprattutto tra i più giovani che queste “rap star” internazionali sono tornate (o arrivate) a riempire palazzetti e stadi.
Tutti questi concerti, tuttavia, mi hanno lasciato soddisfatto e contento ma con un pizzico di amaro in bocca, e come me, moltissimi altri miei coetanei stanchi delle code kilometriche sotto il sole per una birra e di fare a spallate per scavalcare il muro di smartphone.
“Bello ma è durato troppo poco” “Peccato che non fosse in forma con la voce” “eh ma il pubblico italiano ha un brutto rapporto con l’inglese” “che palle non ha fatto le canzoni più famose” “era pieno di ragazzini”

Queste sono solo alcune delle lamentele più comuni che si possono ascoltare all’uscita di un qualsiasi concerto di chiunque degli artisti sopracitati, si, ma non ad un concerto di Anderson .Paak.
Quella del 17 luglio è stata, infatti, un’esperienza magnifica, emozionante e pienamente soddisfacente per tutti i coraggiosi avventori del Carroponte che hanno sfidato sciami di zanzare armati solo di Autan e birrette.
Lì con me, oltre al mio fido fotografo (fido perché è un cane a far le foto) c’erano anche alcuni amici ed uno di loro mi ha confidato di essere al suo primo concerto.
Certo troverete strano farsi il primo concerto a 25 anni suonati, e ancora più strano che fosse proprio quello di Anderson .Paak e non di un Fedez qualsiasi, ma c’è da ammirare la sua lungimiranza.
Prima che il concerto iniziasse gli ho detto, memore del live al Teatro Romano di Verona dell’anno scorso, che era molto fortunato perché stava per assistere ad una performance pazzesca.
Ad aprire la serata e riscaldare il pubblico (non che ce ne fosse realmente bisogno) sono stati Frank Sativa e Willie Peyote: quest’ultimo in particolar modo ha sfoderato pezzi classici del suo repertorio tratti sia da Sindrome di Toret sia dal più classico Educazione Sabauda sapendo attirare le attenzioni anche di chi, tra il pubblico, non conosceva l’artista torinese.
La portata principale si è fatta attendere fino al calar del sole.
Luci, sipario e azione.
“Hey! Well that’s exactly what a nigga came for”
E’ proprio Come Down ad aprire le danze, letteralmente, visto che il pubblico si scatena fin da subito in balli forsennati e sing along degni dei migliori karaoke di Tokyo, certo non quanto Anderson .Paak, un entertainer fuori dal comune, l’incontro tra genio e talento, tra funky e “cazzimma”, tra assoli di batteria (si, fa anche quello) e performance vocali da non crederci.
La struttra portante del concerto è stata sicuramente quella di Malibù, di cui ha eseguito quasi tutti i brani (tranne Celebrate, accennato con grande dispiacere solo in uno dei numerosi encore), ma non mancavano le nuove uscite (Bubblin), i successi con NxWorries o i meno scontati di Venice.

“Your heart don’t stand a chance
Your knees just want to break”
Perché basta che Anderson si sieda dietro i suoi piatti per far salire lo show di un altro gradino e far sciogliere i cuori anche dei più restii al ballo, soprattuto gli basta gridare in un italiano migliore di quello di Antonio Razzi “Milano facciamo un po’ di casino” per raccogliere sin da subito i consensi di tutti.
Un capitolo a parte si dovrebbe aprire sulla sua band di supporto, che non ha niente da supportare ma sa arricchire un palco già affollato dalla sola presenza di Anderson .Paak.
The Free Nationals non possono essere affatto considerati una spalla, sono musicisti di un talento sopraffino che potrebbero intrattenere un pubblico ben più numeroso delle poche migliaia di persone presenti al Carroponte.

Già, poche migliaia, ma meglio così forse, perché meno siamo meglio è e c’è una vocina cattiva che mi ronza in testa e mi dice che il grande pubblico non si merita certi concerti.
Poi il costo dei biglietti salirebbe e si farebbe fatica a trovarli.
E che ressa ci sarebbe?
Ma voi ce le vedete le tredicenni con l’apparecchio accalcarsi sotto le transenne per gridare ad Anderson .Paak?
Anzi, sapete cosa? Il concerto ha fatto schifo, l’anno prossimo non veniteci.
Tornando al mio amico vergine di concerti, mentre ci dirigevamo verso l’uscita gli ho detto che è stato molto sfortunato: è vero che il primo live non si dimentica mai, ma sarà difficile che qualcuno riesca davvero ad alzare il livello dopo quello a cui abbiamo assistito.