E’ passata una settimana dalla pubblicazione di “Sapori forti”, l’album che ha segnato il grande ritorno al rap di Asher Kuno, coadiuvato dai beat di Non dire Chaz. Siccome volevamo saperne di più gli abbiamo fatto qualche domanda.
Ciao Kuno, è passato qualche anno dal tuo ultimo progetto e nel post dove annunciavi l’uscita dell’album hai scritto “ho fatto pace col rap”. Cosa era successo? Cosa ti ha tenuto lontano dalla scena in questi anni?
Sono avvenuti tanti cambiamenti, positivi e negativi, che in realtà in buona parte menziono nell’album. ln più una forte mancanza di stimoli, dettata dal fatto che molti amici stretti, o hanno smesso o “giocano un altro campionato“. Insomma, l’ambiente che ti circonda e chi ti circonda sono fondamentali per mio conto.
Come è nata la collaborazione con Non Dire Chaz, produttore di tutte le tracce dell’album?
Io e Chaz ci conosciamo da anni, e mi era già capitato in passato di rappare su produzioni sue. Semplicemente, abbiamo fatto l’abbonamento insieme per vedere l’Inter al Meazza, e per forza di cose abbiamo cominciato a frequentarci di più. Mi propose di fare un paio di pezzi, ma all’inizio fui restio, c’è voluto un po’ prima di convincermi a riaccendere il motore.
Nell’album è presente una canzone dedicata a Verona, il che non è così scontato visto che tu notoriamente vieni dall’hinterland milanese. Qual’è il tuo rapporto con la città di Verona?
Verona è sicuramente una città che amo, e che ho la fortuna di frequentare da anni, anche perché ho molti amici storici qua. Con Zampa e Capstan ho anche fatto viaggi importanti, e via chat siamo in contatto praticamente ogni giorno. Durante le sessioni in studio, c’era sempre anche Manny Mani, che sulla carta era estraneo al disco, ma in realtà era fisso con noi a lavorarci. Insomma, il mio ritorno al microfono è fortemente legato a questa gente, anche perché mi hanno spronato fin dal primo momento.
Non possiamo non nominare la crew “Spregiudicati” che è stata (per me e credo per tanti altri) un punto di riferimento nei primi anni del 2000. Quanto è stato per te importante essere parte di questo progetto? Perchè alcuni poi sono “spariti”?
Beh, fondamentale. La gavetta l’abbiamo fatta insieme. Partiti dalla piazza di un supermercato di provincia, abbiamo poi suonato ovunque in Italia. Sicuramente erano anni dove fare business col rap era quasi impensabile, e noi eravamo troppo giovani e troppo distratti per farlo. Però ci siamo divertiti molto. Purtroppo tra noi non siamo più in contatto, quindi non so dirti cosa facciano attualmente gli altri, a esclusione dei nomi più noti.
Hai avuto il grande merito di tirare in ballo artisti che non sentivamo da parecchio su progetti ufficiali, vedi CDB ma soprattutto MDT. Come hai fatto a convincerli?
Per quel che riguarda i CDB è stato semplice: io e Supa abitiamo a pochi metri di distanza, una sera con Rido sono venuti da me a incidere un pezzo loro. Gli ho semplicemente chiesto se avessero voglia di partecipare, e hanno accettato subito con entusiasmo. Stare in studio con loro è sempre epico. Con gli MDT invece ho fatto un po’ più fatica. Siamo riusciti io e Jack a portarli in studio quasi con l’inganno dopo una cena tra di noi, grazie a qualche bicchiere in più e alla giusta atmosfera sono tornato a casa con la loro strofa.
Parliamo del pezzo “Rapparquet”. Non ricordo molti pezzi in cui l’artista parla del suo “primo” lavoro, quello con cui si guadagna il pane per capirci. E’ chiaro che sei molto attaccato alla tua professione, ce ne puoi parlare? C’è stato un momento in cui hai dovuto scegliere tra la carriera di rapper e questo lavoro?
Sono artigiano, sono obbligato a essere attaccato al mio mestiere. Lo ha fatto mio padre per 50 anni e lo fa anche un’altra parte della mia famiglia, per forza di cose il nostro cognome ha una tradizione alle spalle. È faticoso, ma ne vado fiero. In passato, per un periodo, ho provato a vivere solo di musica, ma è troppo difficile ai nostri livelli. Sono tornato in breve tempo all’ovile.
Non so se è una mia impressione ma ho notato una sorta di filo conduttore riguardo la paternità. Hai nominato tuo papà, sei diventato tu stesso padre e, non ultimo, il rapporto con il tuo cane che un po’ ti ha insegnato il “mestiere” del padre. Mi sbaglio?
Se vuoi sì, ma in realtà non è voluto. La mia generazione di rapper è sempre stata bombardata dall’importanza del dire solo ed esclusivamente la verità nei propri testi. Quindi, in un modo o nell’altro, ho parlato di quello che mi è successo negli ultimi anni anche stavolta. Purtroppo ho già 40 anni, la credibilità di strada è venuta un po’ a mancare, ma penso di aver trovato la giusta chiave per parlare di quotidianità in modo figo.
Ma ora parliamo di un altra tua grande passione: l’Inter. Anche di questo parli nell’album, quanto è importante per te? (guardiamoci bene dal parlare di scudetto, ovviamente)
Apprezzo sempre le citazioni calcistiche all’interno delle canzoni, ovviamente ne ho fatte molte anch’io. È anche grazie all’Inter ed alla passione di entrambi se abbiamo chiuso quest’album. E poi ovunque vai, il calcio è sempre un ottimo biglietto da visita per attaccare bottone. Un tempo riuscivo a farmi qualche trasferta, ammetto che al momento è un po’ più difficile, anche perché oltre agli altri miei interessi, ho soprattutto bisogno di stare anche con la famiglia.
E’ chiaro che la scena del rap è cambiata dagli anni in cui tu hai pubblicato “The Fottamaker”, il tuo primo album che ha compiuto vent’anni. E’ cambiato il modo di fare rap ma soprattutto sono cambiate, a mio avviso, le motivazioni. Cosa ne pensi? Volevo un tuo parere su questa “nuova scena” e su quanto sia veloce oggi arrivare al top, rispetto alla famosa “gavetta” che pare non esista più.
Non ho voglia di pensare come un nostalgico. Ai nostri tempi tutto questo sistema non esisteva. Beata la nuova scena che può viverla e che ha più possibilità di farne una professione. Da adolescente ero visto come “alternativo“, ora è normale vedere teen-ager fare rap. Ed io ‘sta roba all’epoca un po’ la sognavo. Quando andavo a Nizza o a Francoforte, mi sembra di atterrare su Marte, l’Italia era la Cenerentola d’Europa in materia. Ovviamente non tutto quello che spunta fuori è di pura qualità, ma non lo era nemmeno prima quando eravamo in quattro gatti. Gli ascoltatori al momento hanno solo l’imbarazzo della scelta, fuori c’è di tutto, sta a loro.